La parola nuda, pura e palpitante di Antonia Pozzi. Parte 3
Il tono di Cervi – lo apprendiamo indirettamente dalle risposte di Antonia, ché le lettere di lui sono
andate perdute, forse distrutte – è duro e acrimonioso, quello di un uomo vittima di un’ingiusta
ostilità. Antonia, pur ribellandosi, ama troppo i genitori e non riesce a opporsi definitivamente al loro
volere; Cervi da par suo, anziché difendere il loro amore, si rifugia nel ricordo e nel dolore. A dividerli
è anche il loro contrapposto rapporto con la religione: cattolico praticante lui, riluttante ad ogni forma
di religione convenzionale e standardizzata lei, che nell’abbraccio cosmico degli elementi trova una
risposta alla sua tormentata ricerca spirituale.
A Londra, sotto i grandi alberi, là dove ci pareva di essere soli sulla terra e tu non sentivi altro che amore per me e allora, non so con quale ardore, io, io per la prima, io senza forse essere compresa, tentai di rompere la barriera che ci separava e ti parlai del mio Dio, di quello che, in un’altra sera d’oro, sulle colline rosseggianti d’erica, m’era balenato nel cuore. […] Che cosa hai ora da rimproverarmi che allora non esisteva? … Perché se è questo che tu mi rimproveri, Antonello, di non credere nel tuo Dio; o se quel che tu dici camminare vuol dire entrare nella tua chiesa, tu capisci, vero, che sarebbe disonesto verso la mia coscienza il fingermi un dovere che non comprendo e non sento. (Lettera del 1° marzo 1932)
La giovane donna cerca di mantenere un contatto con Cervi anche dopo la rottura, seppur a distanza e
con tutti i dissidi di cui il loro rapporto è ormai intriso. Finché nel 1933, per volere di entrambi,
avviene lo strappo finale.
Con il rapporto d’amore per Antonello muore anche la speranza, a lungo cullata, di una maternità, quel
bimbo mai nato, sognato e vagheggiato, il cui pensiero occupa per anni la mente e il cuore di Antonia,
fin quasi a divenire ossessione.
Vuoto disperante che forse solo la Poesia può cercare e sperare di colmare.
Poesia che è creatura di carne e sangue, che scorre nelle sue vene e riempie il suo cuore, la sua mente e
il suo ventre con una forza che solo la Necessità Assoluta possiede e conosce.
Io credo questo:
che non si può cambiar nome,
cambiar volto
alle creature già nate
nel cuore.
E perciò il nostro bimbo
unico
sarà quello
che noi sognammo
nei mattini di giugno
– ti rammenti? –
Quando calpestavamo
le spighe bionde
per cogliere i papaveri
fiammanti
e tutto il cielo era un rombo
d’ali umane
che cercavano il sole.
Io credo questo:
che saprei squarciarmi
con le mie mani
il grembo
prima di dar la vita
non tuo.
(Unicità)
Durante un viaggio a Roma, Antonia visita la piccola chiesa di Santa Maria in Cosmedin e, commossa e
tremante davanti all’altare della Madonna, affida alla Madre il proprio grembo vuoto, che può
accogliere solo una creatura morta:
[…]
Custodisci ora tu
nella penombra cerea
dei tuoi marmi
questo bambino morto ch’io reco –
questo povero
sogno –
consacramelo tu
sul tuo
altare –
(Roma)
Le poesie del 1933 e del 1934, tranne qualche rara eccezione, portano impresso a fuoco il segno
doloroso di questo amore tormentato, forse l’unico, vero, grande amore della sua vita, quello sul quale
ella proietta il proprio bisogno di felicità e il sogno di una vita semplice e autentica, aliena dalle
etichette sociali imposte dalla classe di appartenenza.
Il senso di abbandono, svuotamento ed estraneità alla realtà e a se stessa predominano nel suo canto,
che si fa cupo e dolente.
Antonia si sente un fiore diaccio e morto, perduto e smarrito fra le tempeste della vita, sconfitto e vinto
senza remissione. Il dolore per la perduta storia d’amore si coniuga a una sofferta crisi interiore, in una
solitudine catartica che a volte tuttavia fa sentire il proprio doloroso peso. Anche il ricordo dei lontani
giorni d’infanzia, dopo quel cruciale 1933 che vede la chiusura definitiva del rapporto con Cervi, si
vena di mestizia; le immagini della natura si tingono del pallido colore della caducità, la memoria del
passato si fa straziata e dolorosamente, acutamente nostalgica. Si leggano ad esempio i versi di
Solitudine (4 maggio 1933):
Benché l’odore delle foglie nuove ti desti
ad una voglia di umano sole
ed il tramonto non trascolorato ancora in sera
ti spinga
per vie di terra
– remote
le soglie spente del cielo –
tu cerchi invano chi possa
in quest’ora per un tuo voto giungere
presso il tuo cuore –
vero è che nessuno
più giunge presso il tuo cuore
inaccessibile –
ch’esso è fatto solo –
dannato ai gridi
delle sue
rondini –
La sua anima si mette a nudo, con innocenza disarmante, pudica sincerità, tanto nei suoi versi potenti
quanto nella scrittura privata in prosa, nelle pagine limpide e dolorosamente intense del Diario e del
Quaderno e nelle lettere, ove la voce si fa ora leggera, sbarazzina e spensierata, ora meravigliata,
smarrita, saggia, amara, malinconica, vibrante, dolente, luminosamente gioiosa.
La scrittura epistolare, alla quale Antonia comincia a dedicarsi con appassionato entusiasmo fin da
quando è una vivace ragazzina di undici anni, ansiosa di scoprire il mondo e di cavalcare con fierezza
l’onda misteriosa del proprio avvenire, la accompagna nel suo irto cammino esistenziale fino alle
soglie della tragica decisione. Essa è spazio accogliente che placa la solitudine, un rifugio dove trovare
conforto che corre in parallelo con la scrittura poetica, ad essa fa eco e ad essa si intreccia, ma con
linguaggio meno teso e sorvegliato, perché più vicino alla vita quotidiana e alla lingua parlata. Diverso
il tono, così come diversi sono gli intenti a seconda del destinatario al quale ella si rivolge: allegre e
rassicuranti le lettere inviate ai genitori da località di studio o vacanza, anche quando l’angoscia si fa
insopportabile e la getta in uno stato di smarrimento privo di nome; colme di affetto e tenerezza quelle
indirizzate alle amiche Lucia ed Elvira e quelle per l’amatissima nonna Nena; appassionate e disperate
quelle in cui reclama la forza incrollabile del suo Sentimento per Antonio Maria Cervi e la sua
cristallina buona fede; senza ombre e senza veli, pur senza oltrepassare la soglia del rispetto e del
pudore, quelle scritte a Vittorio Sereni, Tullio Gadenz, Remo Cantoni e Dino Formaggio.
Le lettere scambiate con il poeta trentino Gadenz rappresentano in particolare l’unica fonte di serenità
e di consolazione in quel periodo buio e desolato che segue la rottura con Cervi; il loro è un incontro
fraterno fra due anime che condividono un medesimo amore per la poesia, intesa come sublimazione
catartica delle pene umane, e per le Divine Montagne, la cui ascesa – faticosa e irta di pericoli – è
palestra prima ancora che per il corpo, per lo spirito. Il costante, affettuoso, tenero dialogo con la
Natura diventa per la Pozzi il linguaggio che sostanzia la sua indagine filosofica, intesa come inquieta e
tormentata interrogazione del sé e del suo posto nel mondo, la cifra del suo cammino interiore,
sofferto e intensamente vissuto, per rispondere a un irrinunciabile bisogno di trascendenza. La
comunione spirituale con Gadenz la preserva dal vuoto interiore che si sta scavando dentro di lei. Le
lettere al poeta trentino, vergate tra il 1933 e il 1938, contengono dichiarazioni di poetica e di
pensiero filosofico-letterario di forte spessore:
Io spero, Tullio, che a queste prime pagine del Suo libro che mi sono state mostrate, altre ne potrò aggiungere via via: e la mia vita, creda, mi dorrà meno, se Lei vorrà infiorarla della Sua poesia. Perché la poesia, non è vero, ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi della vita. (Lettera del 11 gennaio 1933)
Esse aprono anche squarci sulla vita della sua anima, pur senza mai travalicare il confine della pudica
riservatezza, tanto che i due giovani si daranno sempre del lei. Con Gadenz Antonia riesce a dare voce
alla propria sofferta interiorità – con una prosa sorvegliata ma intrisa di lieve lirismo – certa di trovare
nel destinatario un cuore sincero capace di comprendere i suoi smarrimenti.
Io ho tanto sofferto, Tullio; e se oggi non soffro più come un giorno, è forse perché […] la mia anima si sbianca tutta e crede che sia giunto il crepuscolo estremo. Dentro me è tutto un giardino di fiori morti, d’alberi uccisi: e i fiori morti mi fanno vigile e triste come una vecchia mamma presso la tomba del suo unico bimbo. Eppure, creda: se un raggio di sole, fra la nebbia, può ancora farsi strada, esso nasce soltanto là dove io sento che il mio cuore ha toccato un altro cuore, che l’ora greve è stata alleviata da me ad un’altra vita. Ed anche nasce – come Le dicevo – là dove riesco ad evocare con occhi intenti l’anima delle cose ed a far sì che le cose versino il loro pianto intorno e sopra al mio stesso dolore. […] Tutte queste cose, infine, vogliono dire una cosa sola: ch’io sono tanto lieta, Tullio, della Sua amicizia. Io vorrei che Lei sentisse con quanta schiettezza, con quanta purezza d’anima io Le sono vicina. Io vorrei che Lei mi pensasse veramente come una sorella, che è qui, con tutto il suo cuore aperto e le sue mani protese; per godere delle Sue gioie e soffrire delle Sue pene. (Lettera del 29 gennaio 1933)
Alla fine del 1934 la presenza di Remo Cantoni al suo fianco, compagno di studi alla Regia Università di
Milano, sembra ridarle serenità e una ventata di freschezza; la speranza di un nuovo amore è anche
speranza di rinascita interiore. Remo è bello, colto e sensibile e il suo fascino magnetico la investe
come un’onda in piena. Antonia proietta su Remo il suo desiderio di donarsi, senza considerare che il
giovane non desidera legarsi a nessuna donna. Lo stato d’animo lieto è pertanto di breve durata e alla
fugace gioia subentra un senso di amaro disincanto. Per lei, creatura vitale e appassionata, in questo
mondo raggelante sembra non esserci posto. La vita è solitudine. La vita è uno scivolare verso la pace
della morte. Ancora una volta è a un amico fidato, il “caro fratello d’elezione” Vittorio Sereni, con il
quale Antonia per quattro anni condivide pensieri, riflessioni e il peso dell’angoscia esistenziale di chi
non vuole allinearsi con un regime sempre più opprimente, che Antonia confida il senso di disillusione,
insicurezza e inadeguatezza che la annichilisce:
Vitto caro, […] quanti spaventosi abissi, fra Remo e me. Di gusti, di sensibilità; di moralità soprattutto. E questo soprattutto è terribile: la mia assoluta inadattabilità alla vita pratica, il frantumarsi di tutta la mia unità di vita quando mi si porti fuori dell’atmosfera irreale in cui m’ha cresciuta la solitudine. (Lettera del 20 giugno 1935)
A testimonianza dell’affetto che li lega, a Vittorio va l’ultimo pensiero di Antonia: ella reca fra le mani,
morente, in quella cupa mattina del due dicembre 1938, un foglio con la poesia di lui Diana, scrivendo
a fianco ai versi poche ma strazianti parole di addio:
Addio Vittorio, caro – mio caro fratello. Ti ricorderai di me insieme al povero Manzi.
La voce di Sereni si leva struggente dai versi di un altro componimento, 3 dicembre, che egli dedica con
cuore rotto di dolore all’amica che non ha saputo confortare (e che forse non si poteva confortare):
All’ultimo tumulto dei binari
hai la tua pace, dove la città
in un volo di ponti e di viali
si getta alla campagna
e chi passa non sa
di te come tu non sai
degli echi delle cacce che ti sfiorano.
Pace forse è davvero la tua
e gli occhi che noi richiudemmo
per sempre ora riaperti
stupiscono
che ancora per noi
tu muoia un poco ogni anno
in questo giorno.
(Vittorio Sereni, 3 dicembre)
I segni della morte che raggela il suo corpo fra la nebbia sono già impressi anche nell’ultima lettera che
Antonia scrive a Tullio Gadenz, nell’estate del 1938:
…. Di queste montagne consuete, il sole abbagliante di lassù mi appare come specchiato in un lago placido, piano. Le cose si fanno ricordi, l’amore delle cose nostalgia. Ma è una nostalgia che ha in sé tanta pace: proprio la pace che è nel cuore di chi sta su una riva e vede il cielo riflesso nell’acqua mite. Sto tanto bene qui: è la casa della mia prima infanzia. E in questa stanza ho incominciato a meditare e a soffrire. Qui, in questa solitudine di ogni ora, vengono le anime care dei vivi e dei Morti, e la popolano di presenze silenziose. (Lettera senza data – estate 1938)
Ilaria Biondi