Da dove la vita è perfetta – di Silvia Avallone

Recensione di Serena Savarelli

Da dove la vita è perfetta è un romanzo di Silvia Avallone edito da Rizzoli nel 2017. 

“Le avrebbe fermato il cuore, come tutte le cose che non potevano guarire. Adele lo sapeva.

Respira. Era quello che le ripetevano di fare. Ma lei non poteva respirare. Aveva i polmoni pieni di segatura. Il dolore le comprimeva il torace, glielo spaccava a metà come una mela. Il dolore era l’unica verità vera. Così sterminato, quanto l’Adriatico a febbraio.”

 

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Da dove la vita è perfetta è il meraviglioso romanzo di Silvia Avallone che incarna i molteplici punti di vista dei protagonisti, che danzano tra la realtà e i desideri; sono quelli che emergono dalle diverse storie, colme di tutte le emozioni possibili, in un dove di degrado che cela comunque la vita.

Il luogo, attorno al quale le vicende prendono vita, è chiamato i Lombriconi.

 “Era il 2002 e avevano appena traslocato. Lasciando via XXI aprile, il vicino di casa che suonava il violino, il giardinetto sul retro con le ortensie e la scuola bellissima in vi Casaglia.

Erano state costrette a fare le valigie e andarsene ai Lombriconi. In uno di quei due edifici mastodontici rossi e grigi, con le finestre e i balconi che sembravano gabbie da cui sporgersi e immaginare: la vita che non potevi avere.”

È un quartiere vicino alla città con tante strade, ma poche vie d’uscita. Ci sono bivi e decisioni da prendere, ostacoli da superare e la volontà di sopravvivere nonostante tutto, mentre nascono desideri e le certezze affogano nel dolore e le sconfitte.

In questa periferia di persone segnate dalla vita vivono Adele, Manuel e Zeno. Tre ragazzi con i loro tre passati ancorati al presente complicato che, nonostante tutto, unisce e interseca le esistenze in un destino solo.

Adele.

 “Adele, a casa, non aveva niente.

Non aveva neppure un mondo a cui dire qualcosa.”

Diciassette anni. Senza padre e con una madre tradita dall’amore e dalla vita.

Un’adolescente dal passato luminoso, nel quale all’improvviso erano calate le tenebre e, da allora, la sua esistenza era stata costretta a reinventarsi in quel quartiere complicato; lì dove crescere non impediva di sperare almeno un po’, mentre la realtà veniva idealizzata e l’amore immaginato.

Un giorno, il corpo di Adele arriva prima alla verità delle cose e scopre che un momento di passione senza barriere ha generato una nuova vita impensabile, inaccettabile.

“Era un più. Netto. Blu. Come quelli scritti sul quaderno a quadretti con la penna blu. Era un’aggiunta. Una somma. Una cosa più qualcos’altra. Era un più.

Ma era anche un meno.”

Quel più era semplicemente la figlia di Manuel. Metà di Adele e metà dell’amore. Era plurale. Era il nuovo uragano nel suo vivere senza tregua, senza quiete, senza pensieri.

Ma, nonostante tutto, c’era e quel verbo era la sua unica certezza, qualcosa a cui pensare ininterrottamente.

Adele conosceva bene il senso dell’abbandono, quella sensazione che lascia in eredità il vuoto e non va più via.

Ma sua figlia sarebbe stata capace di costruire solo cose belle intorno al proprio vuoto. Era solo sua, la sua vittoria su Manuel e su sé stessa. Sulla vita di sempre, rispetto a quella di prima.

 Zeno.

 “Vuotò la lavatrice. Portò il bucato in bagno. Aprì lo stendibiancheria pieghevole fissato al muro e salì sul bordo della vasca.

In quattro anni, da solo, quante cose aveva imparato? Ad articolare un capitolo, a stirare. A delineare un personaggio, a sturare il lavandino. A isolare le fessure con il silicone, a usare il punto e virgola”.

Zeno la vita la scriveva, ma faticava a viverla per davvero. Lui preferiva rimanere nascosto per osservare e ascoltare fuori da sé stesso, fantasticando un’esistenza diversa, nella quale la sua voce acquistava valore.

Adele, la sua vicina di casa, lo aveva destato dalla sua realtà, fatta di studio e vissuta per una madre complicata. Per Adele, tuttavia, avrebbe fatto di tutto: lasciare sua madre in balia di sé stessa, controbattere alla rabbia di Manuel, fino a trasformare i capitoli della sua storia in qualcosa di tangibile e reale.

Solo per lei e la creatura che portava in grembo. Quella ragazza non la meritava, perché lui era la persona sbagliata, quella che aveva scelto il liceo classico e aveva abbandonato un amico.

Ciònonostante, lui era lì a tenerle la mano e a ricordarle che prima di fare una scelta avrebbe dovuto pensare a cosa voleva lei davvero. Senza dare importanza ai giudizi, ai forse e ai ma, perché era sempre possibile costruire una vita perfetta.

Manuel.

“Prima di venire, Manuel glielo chiese. «Hai preso la pillola?» E lei rispose. (…) Era come essere tornati piccoli e inermi nelle braccia di qualcuno. Continuarono a tenersi stretti contro la parete per un po’. Come se non riuscissero a staccarsi. Come se fossero diventati le due metà di una stessa cosa.”

Manuel considerava i soldi come l’unico aspetto importante della vita.

Non gli importava in che modo riusciva a ottenerli. Loro gli davano la sensazione di poter gestire tutto, anche la sua vita di merda. Ma poi era arrivata quella ragazzina dei Lombriconi a scombussolare i suoi piani, a fargli vedere qualcosa oltre l’apparenza.

Con Adele era diventato, per forza, parte di qualcosa di importante, ma non se n’era accorto subito e l’aveva mollata al suo destino. Che, poi, era anche il suo.

Era una possibilità in comune a unirli: Bianca, ma lui quel nome non lo avrebbe conosciuto.

Aveva scelto di perdere la cosa più bella che aveva costruito nella vita, anche se a un’età insolita; mentre la sua vita sregolata lo gettava in prigione, implorava il suo vecchio amico, Zeno, di prendersi cura di loro e di tenerlo aggiornato.

Tutta colpa del suo dolore travestito da delinquenza. Tutta colpa del suo fascino, camuffato da buono a nulla.

A tenere uniti questi tre adolescenti è prima un embrione, poi un feto e alla fine una neonata.

Bianca.

“Le posò la testa sul seno, la bocca vicino al capezzolo.

Quello che stavano vivendo era un tempo che non esisteva. Non registrabile, non ufficiale. Erano ancora libere di essere inseparabili.

La cosa giusta, sì. E lei come faceva a saperlo?

Chi glielo assicurava che se adesso l’avesse presa e portata via, e fossero tornate insieme in quel casino che erano la sua casa, la sua vita, il suo quartiere, sarebbe stato sbagliato? E invece era giusto uscire senza voltarsi, con gli stessi vestiti di quella mattina, senza niente tra le braccia, con la pancia vuota e i punti in mezzo alle gambe? (…)

Una vita migliore, sì. E chi la voleva?

Solo una cosa desiderava davvero.

Poterle dire: Sono la tua mamma.”

Nata nel dolore e grazie alla sofferenza. Viva dopo quel dolore che è sempre stato una forma di linguaggio, tradotto subito in istinto.

Lei, Bianca, come l’assenza di colori e di consapevolezza del passato truce di una giovane madre o del suo futuro incerto. Bianca traballava tra un sì, un forse e un probabile no.

Lei, frutto quasi di un gioco inconsapevole, figlia di una volta soltanto, di un padre sprovveduto ma innamorato e di una ragazza dei Lombriconi che l’aveva partorita, sola e con coraggio.

Bianca e la sua vita in bilico tra ciò che avrebbe potuto essere e un ignoto comunque sia. Formata in quel mondo che l’aveva fatta crescere lentamente, dove non c’erano né fame né sonno, né caldo né freddo.

In quel contenitore dove non passavano i batteri, ma solo nutrimento ed emozioni. Lei e il suo cuore appena formato, l’unico che era stato capace di strappare una promessa alla sua giovane madre: la sua mamma l’avrebbe difesa e rassicurata per sempre, perché lei, anche se diciassettenne, rimaneva comunque la sua casa.

Bianca, che aveva smosso l’animo gelido e materialista di Manuel e quello timoroso e innamorato di Zeno.

E intorno a questi adolescenti, cresciuti troppo in fretta, troviamo un’ostetrica, Marilisa, una coppia di sposi, Dora e Fabio e la voce di sottofondo di Serena che scongela la verità, tra la vita e l’accoglienza, tra l’impossibile e il sicuramente.

Marilisa.

“Era la prima volta che glielo sentiva dire.

 «Un’ora, anche solo mezz’ora.»

Era il suono di una preghiera.

Per un istante Marilisa si chiese quanto ci avesse capito, di quella ragazzina. Di cosa volesse davvero, di cosa nascondesse dietro i grandi occhi castani impiastricciati di trucco, i lunghi capelli mossi lasciati sciolti e i tacchi esagerati, gli orecchini troppo grandi.

Represse il moto che si sentiva premere contro lo sterno. Un fiotto di compassione o di strazio che l’avrebbe spinta ad abbracciarle e dirle: Ti aiuto io. Lo aggiusto io, tutto quanto.  Ma non poteva.”

Un’ostetrica non si azzarda a giudicare, a immaginare, a capire. Sostiene e sorregge. Fa domande e ascolta senza replicare. Vive attimi di vita altrui e, con empatia, riconosce le emozioni e regala comprensione.

Marilisa accompagna Adele in un percorso nascita dal finale ignoto. Quando la giovane età si scontra con le più grandi responsabilità nasce una cosa soltanto: la paura.

Marilisa aiuterà Adele a dare un nome e una forma a questa paura, perché la vita si palesa all’improvviso e non sempre nel luogo giusto.

Ma cos’è giusto per Adele? E per sua figlia? Non lo sa più nemmeno Marilisa che, nel desiderio di Adele, di trattenere in grembo sua figlia, scopre la verità: una madre è sempre una madre. Come diceva Adele… che sia della “Bolofeccia” o della “Bolobene”.

Dora.

“Seguì l’assistente sociale lungo il corridoio stretto dai soffitti altissimi. Quand’è che uno diventa genitore? Quando lo desidera, quando partorisce, quando lo esige e lo pretende?

Ricordò cosa aveva risposto a Fabio mesi prima: «È quando accetti che tuo figlio sia un altro, quando lo ami chiunque sia.»”

Quante volte si era sentita una gallina! Una gallina che covava uova fecondate nel suo utero, talmente deboli che la speranza di saperli attecchiti era minima. Si sentiva un animale ingabbiato e sofferente, perseguitato dall’ossessione degli esami del sangue per misurare le Beta e il terrore di trovarle negative.

Cinque FIVET e quattro ICSI in quattro anni. Tormentata da quel sine causa, mentre lei era convinta che una causa esiste sempre. Lacrime e dolore. Dolore e sofferenza. Vuoto e immaginazione, mentre i suoi occhi continuavano a posarsi altrove, provando invidia e rabbia insieme.

Finché tutto si placa e cambia forma; la sua vita aveva toccato il fondo e lì aveva trovato un appiglio.

“Ci ho inflitto tutti quei cicli, quegli esami, quelle frustrazioni, pensando solo a me che volevo le nausee, partorire, allattare. Volevo che tu mi tenessi la mano in sala parto. Volevo che fosse nostro. Ma cosa vuol dire nostro? Nessuna persona è di qualcun altro. E io, risucchiata in questo delirio, non ho pensato a lui, Fabio. Non ho pensato alla sola cosa importante. (…)

Nostro figlio esiste già, Fabio. (…) Esiste. E forse ci sta aspettando.”

 Serena.

Un’amica: di penna, di vita, di quelle confidenze che nascono solo tra donne e rimangono celate tra il cuore e la sofferenza.

Serena la conosceva bene quella fetta di bambini abbandonati, distrutti nell’anima e nel corpo, in attesa di una madre e un padre che avrebbero potuto ridar loro una vita vera.

Di fronte al dolore di Dora, Serena veste i panni di un mentore, presente nel momento giusto e capace di cogliere il barlume di speranza e incendiare una certezza.

Posso dirti che ci sono quindicenni che hanno accoltellato per due grammi di fumo, ma credo che cambierebbero vita se avessero una madre ad aspettarli. Ho conosciuto un bambino di sei anni in una casa famiglia, che quando è stato adottato ha voluto essere attaccato al seno, e sbucare fuori da una maglietta simulando il parto. Per riprendersi quello che gli avevano tolto. Non ce n’è uno, anche adolescente, abusato o violentato, che sia da considerarsi perso. È che se da bambino non sei amato, poi non esisti.

(…) Poi lo so che la stragrande maggioranza di genitori adottivi li vorrebbe lattanti e senza storia. Lo capisco, è umano. Ma rimani sempre senza paracadute, in qualsiasi caso, non hai protezioni. E ogni figlio ha bisogno di un genitore. Più è compromesso, più ti aspetta. (…) Guarda che uno non diventa genitore quando dipinge la cameretta o lo scrive su Facebook. Lo diventi nel momento in cui barri quella casella e accetti tutto il futuro imprevedibile, tutta la vita, tutta la storia, di un altro.”

 Fabio.

 “Non voleva rifiutare un figlio perché aveva un carico in più di dolore. Non stava cercando un impossibile normale. Stava solo provando a immaginarsi dentro una storia che non aveva ancora vissuto.”

E infine Fabio. Un uomo, un marito, un amante disarmato e distrutto, tra un passato di spensieratezza e un presente di sconfitte. Un padre immaginario alla scoperta dell’idea di un figlio, prima suo, poi di un altro.

Nel pugno della sua mano, Fabio teneva il desiderio di Dora e, nell’altra mano, la convinzione di un fallito. La prova più difficile da superare, per lui, sarà la consapevolezza di amare, anche quando il sentimento è stato schiacciato dal retrogusto amaro dell’incapacità e dal profumo del passato sfrenato che torna a fare capolino.

Fabio dovrà toccare il fondo, quasi annegando negli errori, tradire e annientarsi nei suoi sensi di colpa, per comprendere che il suo posto è là, con Dora e con il loro futuro incerto e sotto esame.

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Silvia Avallone dà vita a un romanzo che contiene storie diverse, legate tra loro dalle conquiste e dalle sconfitte della vita. Una miscela di emozioni e stati d’animo che arrivano a colpire il lettore e lo lasciano senza fiato, ipnotizzato da ciò che prova anche lui in ogni vicenda raccontata. Lui, che può soltanto ascoltare e cercare di comprendere.

Da dove la vita è perfetta rappresenta la vita di tante persone e mostra tutte le possibilità che circondano la nascita e l’essere nati, l’accettazione e l’abbandono, l’amore e l’odio, l’accoglienza e il rifiuto, la morte d’anima e la rinascita. Il passato e il futuro, tenuti insieme dal presente reale e senza fronzoli.

Silvia Avallone descrive i luoghi con la stessa maestria con la quale fa conoscere i personaggi, finendo per trasformare l’ambiente che li circonda nella metafora di loro stessi.

Che il lettore sia un’adolescente che sogna l’oltre, un’ostetrica, una madre affranta, una madre di pancia o di cuore, una donna intrisa nel suo desiderio di maternità, una donna che conosce la vita e le sue bruttezze, un ragazzo apparentemente perso o sognatore, un uomo in bilico tra ciò che era e che è diventato… per ognuno di questi lettori ci sarà uno spazio adatto per riconoscersi e in quel punto perdersi a immaginare ancora.

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Sinossi

C’è un quartiere vicino alla città ma lontano dal centro, con molte strade e nessuna via d’uscita.

C’è una ragazzina di nome Adele, che non si aspettava nulla dalla vita, e invece la vita le regala una decisione irreparabile.

C’è Manuel, che per un pezzetto di mondo placcato oro è disposto a tutto ma sembra nato per perdere.

Ci sono Dora e Fabio, che si amano quasi da sempre ma quel “quasi” è una frattura divaricata dal desiderio di un figlio.

E poi c’è Zeno, che dei desideri ha già imparato a fare a meno, e ha solo diciassette anni.

Questa è la loro storia, d’amore e di abbandono, di genitori visti dai figli, che poi è l’unico modo di guardarli.

Un intreccio di attese, scelte e rinunce che si sfiorano e illuminano il senso più profondo dell’essere madri, padri e figli. Eternamente in lotta, eternamente in cerca di un luogo sicuro dove basta stare fermi per essere altrove.

Silvia Avallone ha parole come sentieri allungati oltre un orizzonte che davamo per scontato.

Fa deflagrare la potenza di fuoco dell’età in cui tutto accade, la forza del destino che insegue chi vorrebbe solo essere diverso. Apre finestre, prende i dettagli della memoria e ne fa mosaici. Sedetevi con lei su una panchina e guardate lontano, per scoprire che un posto da dove la vita è perfetta, forse, esiste.

Titolo: Da dove la vita è perfetta
Autore: Silvia Avallone
Edizione: Rizzoli, 2017