Le isole di Norman – di Veronica Galletta

recensione di Giovanna Pandolfelli

Norman

Mettetevi comodi e lasciatevi trasportare nei vari angoli dell’isola di Ortigia, e nelle isole che segnano il corpo e l’anima di Elena, protagonista de Le isole di Norman, esordio letterario di Veronica Galletta, premiato con il Campiello opera prima.

Le isole di Norman scorre, tra passato e presente della ragazza, in un’oscillazione che la porta a comparare, come in cerchi concentrici, da un lato le cicatrici a forma di grosse isole lasciate sul suo corpo da un incidente infantile avvolto da un mistero, e dall’altro l’isola stessa su cui vive e si muove alla ricerca dell’altrettanto misteriosa scomparsa di sua madre.

Proprio come accadde anni prima con l’incidente, alla scomparsa della madre il padre reagisce con la rassegnazione e l’immobilismo, mentre Elena si mette sulle tracce della donna, senza tuttavia allertare autorità e soccorsi.

Tutto resta inspiegabilmente racchiuso all’interno delle loro dinamiche familiari. Nessuno all’esterno pare rendersi conto della scomparsa della donna che, del resto, da tempo rimaneva chiusa nella sua camera a giocare con i tarli della sua mente.

“E cosa dovrei fare? Andare dai Carabinieri? E se non ci va lui, perché devo farlo io?”

Una scomparsa, seppure non del tutto imprevedibile viste le condizioni di salute mentale della donna, che tuttavia presenta dell’incredibile.

“Uno lascia la famiglia, e cosa fa? Si porta via una pianta di basilico grande come un baobab. […] il mio gilè rosso. E La montagna incantata. E basta, non una lettera, una parola, un saluto”.

Secondo Elena, la madre avrebbe lasciato volontariamente e consapevolmente la famiglia, dopo mesi di reclusione nella sua stanza, passati a spostare in maniera compulsiva pile di libri sul pavimento che sarebbero stati tutti messaggi cifrati del suo stato d’animo. Nessun’indagine ufficiale sulla vicenda.

Nel tentativo di interpretare quelli che ritiene messaggi intenzionali, Elena sfrutta la sua passione di costruire mappe su reticoli come quando giocava da bambina a battaglia navale.

Del resto, Le isole di Norman è un romanzo dei luoghi e degli spazi, dell’architettura e dell’emblematica costruzione – e demolizione – altro gioco che Elena amava da bambina: le costruzioni.

La camera della madre, l’isola, la sua stessa mente si riducono ad un luogo con coordinate a codice alfanumerico, in un tentativo di far coincidere l’imprevedibilità della vita con una logica di rganizzazione dei pensieri e dei sentimenti.

[…] con le mappe non si torna indietro. Bisogna trovare una soluzione, dare un senso. Anche se il pensiero che avrebbe potuto fare di più non la abbandona. Forse avrebbe dovuto studiare meglio gli intervalli fra le mappe. Oppure la distribuzione dei libri nelle varie colonne.

Una realtà pertanto costretta in una mappa, in un reticolo, a caselle, con la speranza – vana – di darle un senso, di trovare delle spiegazioni.
La realtà ha solo bisogno di essere ridotta in forma sempre meno complesse, più semplici da decifrare, da controllare, e basta.

Una bambina, Elena, che amava giocare a battaglia navale, una giovane donna, Elena, che costruisce mappe per controllare una realtà che le sfugge. Così come le sfugge il dialogo con il padre, che ha sempre tentato di normalizzare la condizione della figlia, evitando di indagare, evitando di analizzare.

Eppure il padre era sempre stato lì, per lei e per sua madre. Distratto, sì, come lo era nei confronti di se stesso e della sua propria salute, e della stessa vita che gli scivolava addosso.

Questo personaggio sembra il più riuscito de Le isole di Norman, ben delineato nella sua psicologia maschile che tende a cercare la normalità al prezzo di restare a guardare la realtà intorno a lui che si sgretola.

È il personaggio a mio avviso più affilato, mentre gli altri, la madre, Elena e il ragazzo incontrato sul suo cammino, restano stemperati, come avvolti in una nebbiolina sottile che non odora né di mare, né di vento, né di scoglio, né di pesce.

Anche il dolore, fil rouge della trama e dell’esistenza dei personaggi, è sbiadito. Sono tutti schizzi, accennati con inchiostro effimero.
La narrazione si dipana in un’alternanza tra analessi e prolessi: tra il presente della protagonista, agli inizi degli anni Novanta, caratterizzato dall’uso del verbo al presente, a flash del passato legato all’incidente accadutole da bambina.

Due tentativi di recupero di una memoria affondata nell’oblio.
Un sepolcro, ecco cos’è l’isola.
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Sinossi

Elena, giovane studentessa, abita sull’isola di Ortigia insieme al padre, ex militante del Partito comunista, e alla madre, che vive chiusa in camera da diversi anni, circondata da libri che impila secondo un ordine chiaro solo nella sua testa.

Quando all’improvviso la donna va via di casa, Elena cerca di elaborare la sua assenza dando inizio a un viaggio rituale attraverso i luoghi dell’Isola, quasi fosse una dispersione delle ceneri.

Parallelamente, nel tentativo di fare luce su un evento traumatico della sua infanzia, di cui porta addosso i segni indelebili, la ragazza capirà che i ricordi molto spesso non sono altro che l’invenzione del passato.

Titolo: Le isole di Norman
Autore: Veronica Galletta
Editore: Italo Svevo, 2020